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Categoria: Climatologia

Antartide: Più che l’aria pare possa l’acqua.

E’ una notizia che gira da un paio di giorni, l’avevo già letta durante il solito giro di blog, ma poi mi è stata segnalata anche da due lettori, perché è approdata anche sui nostri media. Per la verità, come spesso accade, su di un solo medium nostrano, l’ANSiA, l’altro, corriere.it, si è limitato a ripeterne una parte pari pari, compreso il curioso titolo “Perdita silenziosa dei ghiacci antartici”. Se qualcuno di voi ne conoscesse una “rumorosa” si faccia avanti, a meno che con questo non si voglia intendere altro.

 

Allora, si tratta ovviamente dei risultati di una pubblicazione scientifica, questa qui sotto, un lavoro uscito appena ieri su Science:

 

Ice Shelf Melting Around Antarctica

 

La lettura è a pagamento, ovviamente, però c’è il comunicato stampa dell’Università della California, l’istituto da cui provengono gli autori dello studio. L’argomento è palese, si parla dello scioglimento dei ghiacci antartici, più precisamente della porzione di ghiaccio a contatto con il mare.

 

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Il gigante dai piedi di permafrost

Non c’è niente da fare, ogni giorno che passa se ne sentono di nuove sui temi del clima e dell’ambiente. Il sistema è così complesso e la ricerca così variegata, da rendere davvero difficile star dietro a tutto. Anche perché, ogni giorno, esce qualcosa che “non ha precedenti”, che è “potenzialmente pericoloso” e che, naturalmente, necessita di maggiori approfondimenti per essere correttamente inquadrato in chiave cambiamenti climatici.

 

Oggi è il giorno del permafrost, ovvero del suolo perennemente ghiacciato che alle alte latitudini funziona da “riserva” di grandi quantità di carbonio. L’aumento delle temperature e il potenziale futuro innalzamento di latitudine della linea del permafrost, con conseguente rilascio in atmosfera di parte di questa riserva, potrebbero risultare in una alterazione del ciclo del carbonio, con conseguenti risvolti sia climatici che ambientali.

 

Una storia non nuova, che torna però sotto i riflettori in un comunicato stampe della NASAripreso da Science Daily:

 

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Il 20° secolo è stato più caldo di tutti i 19 secoli precedenti – Revisione delle dendrocronologie di Yamal e degli Urali polari.

Su Quaternary Science Reviews (vol. 72, pagine 83-107) è riportato un corposo lavoro del dr. K. R. Briffa et al.:

 

Reassessing the evidence for tree-growth and inferred temperature change during the Common Era in Yamalia, northwest Siberia

 

Si tratta, in buona sostanza, di una ri-analisi del record di dati relativi agli anelli di diverse decine di alberi ubicati nella penisola di Yamal nella Russia siberiana e di altri dati relativi ad alberi che crescono negli Urali polari già analizzati nel passato (Shiyatov 1962 ; Graybill e Shiyatov, 1989 ; Briffa et al, 1995. , Esper et al, 2002.).
Briffa et al. 2013 parte dalla considerazione che la maggior parte (la quasi totalità) dell’accrescimento di una varietà di larici che crescono nella parte artica della Siberia (Larix sibirica) si verifica nel breve periodo estivo che caratterizza quelle aree: giugno, luglio e porzione di agosto. La larghezza degli anelli (TRW) e la densità massima del legno tardivo (MXD) rappresentano un ottimo dato di prossimità delle temperature estive delle regioni polari.

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Il giorno del giudizio, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

The day of reckoning, così Roy Spencer ha definito quello che mostra nel suo ultimo post. Calamità naturali in arrivo in ordine sparso? Disfacimento climatico diffuso e inarrestabile? Niente di tutto questo, “solo” l’ennesima, inequivocabile, chiarissima comparazione tra quello che l’ stato dell’arte della scienza del clima si aspettava dovesse accadere negli ultimi anni e quello che invece è successo.

 

Sicché il giudizio non è per noi poveri mortali in balia delle bizze del tempo e del clima e per di più cocciutamente convinti che questo non sia sul punto di disfarsi, quanto piuttosto per quanti questa convinzione continuano a coltivarla nonostante le evidenze.

 

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Modelli climatici: meno ghiaccio, meno maltempo

Questi primi giorni del mese di giugno non sono forse i più adatti per parlare di una diminuzione della frequenza di occorrenza delle perturbazioni alle medie latitudini, con lo sconcerto – in larga misura privo di fondamento – che pervade il comune sentire circa le vicende meteorologiche stagionali. Basterebbe però spostare l’attenzione un po’ più a est, verso un Europa orientale alle prese con un caldo decisamente anomalo, per scoprire che l’equazione meno ghiaccio = meno maltempo potrebbe essere fondata.

 

Questo non vuol dire che lo sia però. Piuttosto vuol dire, per l’ennesima volta, che il tempo atmosferico osservato a scale spaziali e temporali limitate non è mai in diretta relazione con il clima. E questo vale per le piogge e il fresco che stiamo sperimentando, come varrà, presumibilmente nella prossima estate, per il caldo che inevitabilmente si farà sentire.

 

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Temperature oloceniche, CO2 e dintorni

Questo breve post si basa su quattro diagrammi. Il primo è tratto dal lavoro di Marcott et al. (2013) già commentato tempo fa su CM. In tale lavoro una ricostruzione termica condotta a partire dai dati di 73 proxy ci propone una lettura del trend delle temperature globali improntata al progressivo deterioramento (alias “global cooling”) che sarebbe avvenuto a partire da circa 5.000 anni orsono e cioè dalla fine del grande optimum climatico postglaciale (GOCP), fase calda in cui il mare era più alto di 2-3 m rispetto ad oggi ed i ghiacciai alpini erano secondo alcuni totalmente scomparsi.

 

Fig_1
Figura 1 – La ricostruzione della temperature globali oloceniche proposta da Marcott et al. (2013). Si coglie il deterioramento in atto dalla fine del grande optimum postoglaciale alla fine della Piccola era glaciale.

 

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Se Kyoto non è Montreal il riscaldamento globale è finito

I trattati firmati a Montreal nel 1987 e a Kyoto esattamente dieci anni dopo, sono stati i primi, se non unici esempi di global governance che la diplomazia internazionale ha saputo esprimere. Se simili, in quanto di natura ambientale il primo ed essenzialmente focalizzato sul clima il secondo, tra i due trattati c’è di fatto una enorme differenza.

 

Il primo, riguardante la messa al bando dei Clorofluorocarburi (CFC), ritenuti responsabili del depauperamento dello strato di ozono stratosferico, ha funzionato, nel senso che l’uso dei CFC è stato di fatto abolito e, seppur con lentezza e con qualche controversia scientifica, ci sono prove abbastanza evidenti che i loro effetti dannosi si siano attenuati. Il secondo, siglato con l’obbiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica provocate in larga misura dall’uso dei combustibili fossili e ritenute responsabili dell’accrescimento dell’effetto serra e conseguente riscaldamento globale, è fallito in tutte le sue parti. Le emissioni sono aumentate e i fondamenti scientifici su cui poggiava stanno venendo meno, perché nonostante questo aumento la temperatura media superficiale del Pianeta ha smesso di aumentare o, quanto meno, ha assunto un trend molto diverso da quello atteso.

 

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AGW, è iniziata la capriola?

Difficile a dirsi, anche perché i rigurgiti di catastrofismo da quattro soldi continuano a presentarsi ad ogni buona (si fa per dire) occasione. Però, tra quanto è trapelato mesi fa circa la bozza del redigendo prossimo report dell’IPCC e quanto pubblicato su Nature qualche giorno fa, i segnali di un certo – diciamo così – nuovo orientamento del mainstream scientifico in effetti ci sono.

 

Quella in testa a questo post è una delle figure contenuta nella bozza del report in questione. Non è dato sapere se effettivamente avrà l’onore di essere pubblicata in sede di stesura finale, ma è certamente un’immagine che fa riflettere. L’argomento è quello del paragone tra le proiezioni climatiche e la realtà delle osservazioni in termini di temperatura globale. Non direi che si possa sostenere che sia stata trovata l’equazione del clima, non vi pare?

 

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I modelli di regressione: non è tutto oro quello che luce

Il prof. N. Scafetta, in questi ultimi tempi, si sta interessando al problema del livello del mare e della sua evoluzione futura. Dopo il recente articolo…

 

Multi-scale dynamical analysis (MSDA) of sea level records versus PDO, AMO, and NAO indexes – (pdf)

 

…di cui ho avuto occasione di parlare qui, è stato da poco pubblicato un nuovo lavoro che, però, si occupa di un problema ancora più generale: gli errori nell’applicazione dei modelli di regressione e dei filtri wavelet utilizzati per analizzare i segnali geofisici.

 

Discussion on common errors in analyzing sea level accelerations, solar trends and global warming

  – (pdf)

 

Nell’articolo, piuttosto corposo e denso di spunti di riflessione molto interessanti, il prof. N. Scafetta accentra la sua attenzione su tre aspetti che rivestono molta importanza nel dibattito in corso tra i membri della comunità scientifica che si occupano di climatologia, in generale, e dei suoi aspetti più particolari (temperature, livello dei mari, contenuto di calore degli oceani, paleoclima ecc., ecc.) Secondo quanto scrive il prof. N. Scafetta nel suo articolo (da ora Scafetta, 2013b) buona parte degli studi che sono stati effettuati fino ad oggi sono affetti da errori ed approssimazioni eccessivi in quanto non tengono conto di tre importanti fonti di errore.

 

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L’umidità fa male alle ossa…dei catastrofisti

Per far camminare le auto ci vuole il carburante, normalmente fossile. Molto più raramente e, più specificatamente negli ultimi tempi, si vedono in giro auto che impiegano la propulsione elettrica. Se ibride, con l’ausilio – e molto minor consumo – sempre di combustibili fossili, se elettriche pure, con energia fossile più o meno pura anche in quel caso, perché l’elettricità deve comunque essere prodotta. Insomma, per avere a disposizione dell’energia di movimento, ci vogliono grandi quantità di energia termica. E, purtroppo, quella immessa nel sistema è sempre molto superiore di quella utilizzata con efficienza.

 

Il clima e il tempo atmosferico funzionano allo stesso modo. Il sistema riceve energia termica e si mette in moto, producendo gli eventi atmosferici. In atmosfera il vettore di questo calore è il vapore acqueo, che però, essendo anche il più potente dei gas serra, ha anche un ruolo determinante nel modulare la quantità di calore disponibile. In modo molto poco ortodosso, si potrebbe dire che il vapore acqueo decide “da solo” quanto calore avrà da trasportare e quanto ne renderà disponibile per far muovere gli eventi atmosferici. Ma, con le temperature che aumentano o, meglio, sono aumentate, in atmosfera c’è maggiore disponibilità di vapore acqueo, quindi più energia disponibile e più effetto serra, quindi anche temperature che dovrebbero aumentare ancora.

 

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Se il ghiaccio è come il gruviera, che fine fanno i buchi?

Sono da tempo abituato ad utilizzare le “lenti” di Cryosphere today – sito dell’Università dell’Illinois – per verificare in tempo pressoché reale i dati di copertura glaciale marina artica e antartica. Sono altresì conscio dell’esistenza di dati Nasa riportati al sito NSIDC, che forniscono statistiche analoghe. Di recente tuttavia, la lettura del lavoro di Meier et al. (2013) mi ha spinto ad interrogarmi sulle ragioni della discrepanza fra le due fonti che si percepisce confrontando a occhio i rispettivi diagrammi.  Ma procediamo con ordine.

 

Il lavoro di Meier et al. recupera i dati del satellite in orbita polare Nimbus I relativi alla copertura glaciale del 1964, aggiungendo così un dato importante ai dati da satellite fin qui disponibili e che avevano inizio nel 1979. Dall’articolo  si evince in sostanza che, con riferimento alla copertura glaciale di settembre (mese che  nell’emisfero nord corrisponde al minimo annuale di copertura glaciale marina) si può dire quanto segue:

 

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Il fresco profumo della Natura

I prati, le foreste, le aree rurali, chissà quante volte vi sarà capitato di recepire delle sensazioni olfattive particolari girando lontano dagli insediamenti urbani. Bene, quel profumo, scrivono gli autori di una letter appena pubblicata su Nature Geoscience, è in grado di mitigare il riscaldamento globale.

 

Warming-induced increase in aerosol number concentration likely to moderate climate change

 

Si parla di feedback, cioè di quei meccanismi possibilmente innescati dall’aumento delle temperature che possono potenziare o limitare, come in questa fattispecie, l’ampiezza della stessa causa che li ha generati. Come molti sanno e come ci è capitato di scrivere più volte, la potenziale pericolosità del riscaldamento globale non è direttamente ascrivibile alla relazione esistente tra l’incremento dei gas serra e la temperatura, perché questa è tale da generare un aumento delle temperature non molto significativo. Il problema, piuttosto, verrebbe dall’innesco di feedback con prevalente segno positivo, cioè in grado di amplificare l’entità del riscaldamento. Questo almeno è quanto scaturisce dalle simulazioni climatiche, strumenti essenzialmente “istruiti” con una sensibilità climatica – leggi entità del risaldamento del sistema al raddoppio della CO2 – dominata da fattori di amplificazione e quindi piuttosto elevata.

 

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CO2 e Temperature, la causalità di Granger non funziona

Forse qualcuno ricorderà che ormai più di un anno fa, precisamente nel febbraio 2012, abbiamo pubblicato un post di commento ad un lavoro di ricercatori italiani in cui veniva applicato il principio di causalità di Granger alle serie storiche della concentrazione di anidride carbonica e delle temperature medie superficiali globali.

 

Il nostro post, pur essendo di fatto un mirror, aveva suscitato una lunga discussione in cui sono intervenuti anche gli autori dello studio. I toni, dapprima piuttosto accesi e non propriamente costruttivi, si sono poi rilassati e hanno condotto ad un proficuo approfondimento. Il tema centrale della discussione, ha poi finito per essere quello dell’applicabilità della tecnica statistica del principio di Granger per tramutare la correlazione esistente tra le serie in un rapporto di causalità.

 

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Riscaldamento globale o regionale?

Già parecchio tempo fa, quando appena si iniziava a parlare della stesura del prossimo report dell’IPCC, il quinto della serie, dalle dichiarazioni di quanti hanno poi preso parte al processo di generazione del report, era emersa chiaramente la necessità di andare nella direzione di una descrizione delle dinamiche del clima a scala temporale decadale o multidecadale piuttosto che secolare e a scala spaziale più regionale che globale.

 

Le condizioni climatiche, del resto, possono evolvere in modo profondamente diverso da regione a regione, anche e soprattutto in risposta a modifiche dello stato termico del Pianeta misurate invece a scala globale. In sostanza, ad una modifica in positivo del bilancio radiativo – il sistema si scalda se e quando trattiene più energia di quanta ne riceve – se nel lunghissimo periodo e per modifiche molto accentuate si registrano comunque variazioni paragonabili, ma in questo caso si parla di glaciazioni o di completa perdita dei ghiacci, per brevi periodi climatici, il clima può evolvere verso il freddo in una zona mentre un’altra o più altre soffrono un riscaldamento e viceversa. Questa, entro certi limiti indipendentemente dal segno che assume il trend delle temperature medie superficiali globali, è la storia del nostro Pianeta. Queste variazioni però, sono anche quelle delle quali ha senso preoccuparsi, perché hanno luogo a scale temporali paragonabili con l’evoluzione della società, con le dinamiche della disponibilità e accessibilità delle risorse, sono quelle, insomma, con cui ci dobbiamo confrontare. E’ questa la ragione per cui, tra l’altro in un contesto di affidabilità dei sistemi di previsione tutta da dimostrare, un presunto aumento della temperatura media globale insostenibile per la fine di questo secolo, se per essere più credibile viene rafforzato con previsioni a breve termine di aumento degli eventi estremi o di scomparsa totale della neve, quando tutto ciò non avviene diviene risibile. Perché, se qualcuno non se ne fosse accorto, nonostante il riscaldamento globale possa essere stato associato ad ogni genere di sventura, il clima continua a fare quello che ha sempre fatto, cioè cambiare e, soprattutto, essere anche largamente impredicibile.

 

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