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Autore: Guido Guidi

Scettici siete, scettici resterete. Ora si può.

Ci stiamo girando intorno da qualche giorno. L’amico Teo ha detto che studierà e, se del caso, rivedrà le sue posizioni sul peso che può aver avuto nel computo dell’aumento delle temperature medie  globali l’effetto riscaldante delle aree urbanizzate. L’amico Donato si è detto tutt’altro che sorpreso, come molti altri, dalle affermazioni di base delle quattro draft presentate dal Berkeley Group. L’amico Maurizio, come sempre piuttosto disincantato, ha voluto sottolineare gli aspetti a suo dire poco corretti dell’aver provocato un battage mediatico sulle proprie conclusioni prima di averle sottoposte a revisione.

Ma il succo qual’è?

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Volere è potere

Sono passati sette mesi dal terribile terremoto del Giappone. Altrettanti ne sono passati dallo Tsunami che ha di fatto provocato le terribili devastazioni cui la costa orientale del paese del Sol Levante è stata sottoposta. Qualcosa come 20.000 persone hanno perso la vita o risultano disperse. Più di 800.000 abitazioni sono state parzialmente o totalmente distrutte. Il disastro ha compromesso affari, strade e infrastrutture. La Croce Rossa giapponese calcola che ci siano stati 400.000 rifugiati. Quando erano passati soltanto alcuni giorni dall’evento, ci siamo meravigliati di come avessero potuto rimettere in sesto ottocento chilometri di una strada praticamente distrutti in meno di due settimane.

[image width=”554″ height=”247″ align=”center”]http://www.climatemonitor.it/wp-content/uploads/2011/10/Giappone_1.jpg[/image]

Questa sopra è una delle serie di foto pubblicate dall’agenzia Kyodo news e rilanciate da The Sacramento Bee in cui si vedono le devastazioni iniziali, i progressi fatti nei primi tre mesi e la situazione attuale. La Natura è entrata nelle loro vite con prepotenza, non c’è dubbio, e molte le ha portate via. Ma gli uomini, quando vogliono sanno essere forti. Magari non vincono, ma di sicuro non abbandonano la partita.

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Perché non succede tutti gli anni?

Qualche giorno fa, per la precisione giovedì scorso, il nostro paese è stato colpito da un evento di forte maltempo. Piogge abbondanti, anche molto abbondanti sul nord-est sulla Liguria e sulla Toscana, ma, soprattutto temporali forti sulle regioni tirreniche. E’ quasi inutile ripercorrere la cronaca dell’accaduto in termini di impatto sul territorio, ma tutti sanno che l’area che ha subito le conseguenze più significative è quella della capitale.

Cosa è successo?

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Wow, il mondo si scalda, le città no.

Il compito era improbo, ma si sono messi d’impegno. Il gruppo Berkeley ha completato le prime quattro pubblicazioni inerenti il progetto di ridefinizione del dataset delle temperature superficiali globali, dei metodi di omogeneizzazione spaziale e temporale, della determinazione del peso, se di peso si tratta, dell’effetto Isola di Calore Urbano, dell’incidenza del posizionamento dei punti di osservazione e, ultimo ma non meno importante lavoro, la correlazione individuata tra l’indice AMO e la variabilità climatica – espressa attraverso il dataset appena ridefinito – tra il 1950  e il 2010.

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Alla fiera dell’est…

…Per due soldi, un topolino mio padre comprò. E venne il gatto che…fu mangiato dal topo. E’ stato necessario cambiare il testo della storica canzone di Angelo Branduardi, la scienza lo richiede.

Premessa. Qualche giorno fa abbiamo pubblicato il commento a una ricerca che ha messo in correlazione le oscillazioni della temperatura con il benessere sociale, individuando nei periodi freddi i rischi maggiori di instabilità e disagio. Nella trattazione, quasi in forma di postulato, anche l’evidenza rappresentata dalla correlazione tra la statura degli esseri umani e le temperature. Gli uomini crescono di più e meglio se fa più caldo.

Pare non sia così per gli animali. E’ di questi giorni infatti la pubblicazione di uno studio che ravvisa nel riscaldamento globale la causa di una generale tendenza degli animali a diventare più piccoli. Prima inevitabile riflessione: gli uomini (e naturalmente anche le donne) non sono animali. Questo ci rallegra.

Già alcuni anni fa avevamo avuto un assaggio di questa ipotesi miniaturistica. Le pecore di un’isoletta scozzese pare siano diminuite in volume a causa del global warming. Con una rapida occhiata alla realtà climatica della zone è stato semplice scoprire che nella fattispecie più che le temperature poterono le piogge. Di qui la certezza che i pur simpatici ovini non fossero di pura lana vergine. Ricordatevelo la prossima volta che acquistate un capo di abbigliamento di lana scozzese.

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Che avete da fare nel 2500?

Avete letto bene, 2500, non 2050, data che magari qualcuno potrà anche sperare di raggiungere, sempre se i facinorosi salvatori del Pianeta non decideranno di farci saltare per aria in stile campagna di marketing del 1010. Quella è la data fin dove si è spinta l’ultima simulazione delle variazioni del livello del mare, tra cinque secoli. A ‘corroborare’ in stile catastrofico i risultati di questa ultima fatica, non poteva mancare l’immagine di New York – per la precisione Manhattan – interamente sommersa dalle placidamente maligne acque dell’oceano.

Per carità, non che l’immagine c’entri nulla con questa ricerca, dal momento che per ottenere un innalzamento del livello del mare capace di combinare tanti guai ci vorrebbero 26.000 anni all’attuale rateo di innalzamento. Però fa effetto, come dire, arreda. E certamente nessuno di quelli che normalmente guarda dall’alto della torre d’avorio commiserando i poveri minus habens scettici che ne popolano la base avrà alcunché da dire. Il messaggio prima di tutto, questa è la parola d’ordine, anche prima di accendere i neuroni.

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Hum… se va così ci vorrà il cappotto…

Mentre si cominciano a vedere i primi timidi approcci alle prognosi per il prossimo inverno, per le quali la situazione è davvero troppo prematura, esce l’ensemble forecast della NOAA sull’evoluzione della porzione 3.4 di El Niño (la porzione centrale e più ampia del Pacifico equatoriale).

Questi sistemi di prognosi hanno parecchie difficoltà a cogliere le inversioni di tendenza e le fasi di innesco delle oscillazioni delle temperature di superficie, ma, in genere, quando la situazione è consolidata, funzionano piuttosto bene nel prevederne le dinamiche di medio periodo.

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Eventi estremi: Chi di mantra ferisce di mantra perisce

Alcuni giorni fa su Science Daily è uscito un articolo che preannunciava un intervento del climatologo Kevin Trenberth al meeting annuale della Geological Society of America tenutosi poi dal 9 all’11 ottobre. Il titolo della sessione era Extreme Climate and Weather events: Past, Present and Future. La presentazione di Trenberth nello specifico aveva questo invece questo titolo: The Russian Heat Wave and Other Climate Extremes of 2010.

Analizzando i dati relativi all’ondata di calore che ha colpito la Russia nel 2010, Trenberth arriva a concludere che l’evento ha avuto sostanzialmente una doppia radice, ovvero sia naturale che antropica. Per questo, come per altri (quasi tutti sembrerebbe) eventi estremi registrati nel 2010 e nella prima parte del 2011, periodo che non è stato affatto avaro al riguardo, Trenberth individua il contributo antropico nel fatto che abbiano avuto origine in zone del Pianeta caratterizzate da anomalie positive delle temperature di superficie del mare, avendo quindi a disposizione una maggiore quantità di vapore acqueo e di energia, scaricata poi nell’intensità degli eventi. Per la Russia in particolare, sarebbe stata la forza anomala del monsone indiano, appunto innescata dall’anomalia positiva della temperatura del mare, a generare le condizioni per la persistenza del blocco anticiclonico che ha poi favorito e alimentato le condizioni per l’intensa ondata di calore.

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Vuoi vedere che veramente ‘Tutto è relativo’?

Non so se i risultati dell’esperimento OPERA siano stati già inviati ad una rivista scientifica e se sia in corso il referaggio. Quel che è certo è che da quando i risultati preliminari dell’esperimento sono stati resi pubblici, dopo le prime reazioni di meraviglia mista a scetticismo più o meno universali, sembra che in parecchi si siano dati da fare per confermare/smontare quanto affermato da chi ha condotto l’esperimento.

Sembra che qualche giorno fa sia arrivata alle pagine di arXiv una spiegazione che potrebbe far correre qualche brivido lungo la schiena dei ricercatori di Opera.

Secondo quanto si può leggere in questo post su Tecnology review o se preferite farvi venire il mal di testa direttamente sulla Letter pubblicata da arXiv, il famoso neutrino superman non sarebbe affatto risultato più veloce della luce nel percorrere la distanza tra il CERN e il Gran Sasso (per carità non sottoterra…), se nel calcolare il tempo impiegato nella sua folle corsa si fosse tenuto conto della relatività speciale, ovvero del fatto che i due orologi perfettamente sincroni che hanno preso i tempi di partenza e arrivo, non sono sulla Terra ma a bordo dei satelliti GPS impiegati per il calcolo.

Se il sistema di riferimento ha una componente della velocità parallela a quella del moto della particella e si muove quindi verso la sorgente, quella componente deve essere sottratta al tempo impiegato per coprire l’intera distanza. Secondo i firmatari della Letter la correzione da applicare è di 32 ns. Siccome deve essere applicata due volte i nanosecondi diventano 64, ossia appena poco più di quanto si suppone sia stata la differenza tra il tempo che ha impiegato il neutrino superman e quella che avrebbe impiegato la luce per coprire la tratta (60 ns).

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C’era una volta il consenso

Ma se lo dicono quelli bravi possiamo crederci? Se sono gli elementi di spicco della scienza del clima a gettare via quella odiosa e insostenibile immagine della scienza ‘settled’, della scienza monolitica, della visione unica dei problemi complessi, possiamo almeno dire che questo è quello che andiamo dicendo da anni?

Da Nature prima e dal blog di Roger Pielke jr poi, un’interessante opinione di  Dan Sarewitz, che ha recentemente preso parte alla stesura di un report in tema di geoingegneria:

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La moderna ‘piccola’ Età Glaciale

E’ sulle news di Nature Geoscience, e di lì ha già fatto il giro del mondo. Una notizia che naturalmente si è trasformata passando di media in media. C’è chi ne ha sottolineato il rinnovato sapore catastrofico, pur con un intrigante cambiamento di segno rispetto alla norma; chi ha preferito concentrarsi sul fatto che in fondo si tratta di previsioni stagionali o annuali, pratica in cui chi ha diffuso questa news non si è proprio distinto negli ultimi anni; e c’è chi l’ha presa per quello che è, un probabile passo avanti nella direzione giusta per comprendere i complessi meccanismi del clima – o almeno una parte di essi- nel medio e lungo periodo climatico.

Si parla del forcing esercitato dal Sole sul sistema. Finalmente, dopo un lungo periodo di vero e proprio oscurantismo, la possibilità di disporre di misurazioni accurate di una componente importante della radiazione solare, la radiazione ultravioletta, ha permesso che di accendere la luce. Per anni infatti, le simulazioni climatiche sono state fondate sul principio che l’attività solare, intesa esclusivamente come TSI (Radiazione Incidente Totale), non avesse alcun impatto tangibile sulle dinamiche del sistema. Stabile o quasi la TSI, molto variabile il clima, i due sistemi non potevano essere legati.

Di qui la pratica di inserire la componente solare nei modelli di simulazione climatica come costante. Grazie alle misurazioni ottenute dal programma satellitare SORCE, sono state rilevate delle oscillazioni della radiazione ultravioletta che arriva dal Sole cinque volte maggiori di quanto si riteneva possibile. Inserendo questi dati in un modello climatico, ne è venuta fuori una ricostruzione a scala stagionale dei pattern atmosferici dell’area del nord Atlantico molto più fedele alle osservazioni di quanto fosse mai accaduto. In particolare, i periodi di scarsa attività solare e di conseguente forte diminuzione della radiazione UV, riproducono il pattern della circolazione atmosferica della NAO (Oscillazione del Nord Atlantico) negativa, un modello circolatorio che genera l’abbassamento di latitudine della rotta delle perturbazioni atlantiche, con relativo frequente interessamento dell’Europa mediterranea e con aria fredda di origine polare che si spinge con maggiore frequenza sul settore settentrionale del continente.

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…e a proposito di ‘unprecedented’…

Soltanto ieri abbiamo documentato la notizia riguardante la diminuzione della concentrazione di Ozono nell’alta atmosfera boreale. Un fatto, tanto per cambiare, ‘mai accaduto prima‘. Oggi…

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