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Autore: Guido Guidi

Antartide, il ghiaccio resta, il puzzle pure

Appena qualche giorno fa, abbiamo pubblicato un post per commentare una notizia interessante, per certi versi un fatto che cambia le carte in tavola. Si parlava – e continuiamo a farlo anche oggi – del bilancio di massa dei ghiacci antartici. Non estensione del ghiaccio marino quindi, perché quella notoriamente e alquanto cocciutamente aumenta da quando la si misura in modo oggettivo nonostante il riscaldamento globale, quanto piuttosto il volume. Allo stesso tempo, si sa, il ghiaccio marino artico invece diminuisce in modo significativo.

 

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Cielo madreperla

Fino a qualche anno fa l’argomento di oggi sarebbe stato derubricato tra quelli non atttinenti ai temi climatici e meteorologici. Ora le cose stanno diversamente, perché l’interazione tra i due strati atmosferici più prossimi alla superficie, troposfera e stratosfera è ormai consolidata. Molto meno solida, invece, è la conoscenza di quelle poche ma molto spettacolari formazioni nuvolose che occupano la stratosfera, dette nubi nottilucenti in ragione del fatto che la loro visibilità dal basso è regolata da condizioni di luce che si verificano solo in determinate situazioni e solo alle latitudini settentrionali. In gergo tecnico, queste nubi si definiscono infatti Polar Stratospheric CLouds (PSC) e costituiscono un gruppo che al suo interno contiene almeno tre tipi di formazioni nuvolose che differiscono sia per i processi di genesi, sia per i costituenti, sia per le temperature – comunque sempre molto basse – alle quali è possibile che si formino.

 

C’è un articolo uscito su Wired qualche giorno fa. L’oggetto è naturalmente quello delle PSC ma, la forma, come spesso accade, lascia parecchio a desiderare. In sostanza nell’articolo si avanza l’ipotesi che una presunta anomala abbondanza di queste nubi in questi primi giorni di giugno possa essere messa in relazione, o addirittura costituire un ennesimo segnale di tendenza delle dinamiche del clima a mutare, naturalmente per cause antropiche.

 

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Antartide: Più che l’aria pare possa l’acqua.

E’ una notizia che gira da un paio di giorni, l’avevo già letta durante il solito giro di blog, ma poi mi è stata segnalata anche da due lettori, perché è approdata anche sui nostri media. Per la verità, come spesso accade, su di un solo medium nostrano, l’ANSiA, l’altro, corriere.it, si è limitato a ripeterne una parte pari pari, compreso il curioso titolo “Perdita silenziosa dei ghiacci antartici”. Se qualcuno di voi ne conoscesse una “rumorosa” si faccia avanti, a meno che con questo non si voglia intendere altro.

 

Allora, si tratta ovviamente dei risultati di una pubblicazione scientifica, questa qui sotto, un lavoro uscito appena ieri su Science:

 

Ice Shelf Melting Around Antarctica

 

La lettura è a pagamento, ovviamente, però c’è il comunicato stampa dell’Università della California, l’istituto da cui provengono gli autori dello studio. L’argomento è palese, si parla dello scioglimento dei ghiacci antartici, più precisamente della porzione di ghiaccio a contatto con il mare.

 

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Il gigante dai piedi di permafrost

Non c’è niente da fare, ogni giorno che passa se ne sentono di nuove sui temi del clima e dell’ambiente. Il sistema è così complesso e la ricerca così variegata, da rendere davvero difficile star dietro a tutto. Anche perché, ogni giorno, esce qualcosa che “non ha precedenti”, che è “potenzialmente pericoloso” e che, naturalmente, necessita di maggiori approfondimenti per essere correttamente inquadrato in chiave cambiamenti climatici.

 

Oggi è il giorno del permafrost, ovvero del suolo perennemente ghiacciato che alle alte latitudini funziona da “riserva” di grandi quantità di carbonio. L’aumento delle temperature e il potenziale futuro innalzamento di latitudine della linea del permafrost, con conseguente rilascio in atmosfera di parte di questa riserva, potrebbero risultare in una alterazione del ciclo del carbonio, con conseguenti risvolti sia climatici che ambientali.

 

Una storia non nuova, che torna però sotto i riflettori in un comunicato stampe della NASAripreso da Science Daily:

 

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Va’ dove ti porta il clima

E portati dietro una bottiglia d’olio d’oliva e una di vino, possibilmente Chianti, perché non è detto che se trovino ancora in giro.

 

Ecco qua, da AdnKronos:

 

Con il cambio di clima uliveti e vigneti ‘migrano’ verso il versante atlantico

 

Mettetevi comunque tranquilli, il problema, tanto per cambiare, non è oggi, sarà domani. Un domani però anche abbastanza prossimo e ben definito. Per cominciare si parla del 2020. Da quella data e non da un’altra, vigne e ulivi si sposteranno verso latitudini maggiori a causa del deficit idrico e dell’aumento delle temperature. Dove non faranno propriamente le valige, invece, le coltivazioni andranno in collina, specie i vigneti della zona del Chianti. Questo è il primo dei due studi di cui parla l’agenzia, cui segue un breve estratto dagli higlights::

 

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Il 20° secolo è stato più caldo di tutti i 19 secoli precedenti – Revisione delle dendrocronologie di Yamal e degli Urali polari.

Su Quaternary Science Reviews (vol. 72, pagine 83-107) è riportato un corposo lavoro del dr. K. R. Briffa et al.:

 

Reassessing the evidence for tree-growth and inferred temperature change during the Common Era in Yamalia, northwest Siberia

 

Si tratta, in buona sostanza, di una ri-analisi del record di dati relativi agli anelli di diverse decine di alberi ubicati nella penisola di Yamal nella Russia siberiana e di altri dati relativi ad alberi che crescono negli Urali polari già analizzati nel passato (Shiyatov 1962 ; Graybill e Shiyatov, 1989 ; Briffa et al, 1995. , Esper et al, 2002.).
Briffa et al. 2013 parte dalla considerazione che la maggior parte (la quasi totalità) dell’accrescimento di una varietà di larici che crescono nella parte artica della Siberia (Larix sibirica) si verifica nel breve periodo estivo che caratterizza quelle aree: giugno, luglio e porzione di agosto. La larghezza degli anelli (TRW) e la densità massima del legno tardivo (MXD) rappresentano un ottimo dato di prossimità delle temperature estive delle regioni polari.

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Il giorno del giudizio, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

The day of reckoning, così Roy Spencer ha definito quello che mostra nel suo ultimo post. Calamità naturali in arrivo in ordine sparso? Disfacimento climatico diffuso e inarrestabile? Niente di tutto questo, “solo” l’ennesima, inequivocabile, chiarissima comparazione tra quello che l’ stato dell’arte della scienza del clima si aspettava dovesse accadere negli ultimi anni e quello che invece è successo.

 

Sicché il giudizio non è per noi poveri mortali in balia delle bizze del tempo e del clima e per di più cocciutamente convinti che questo non sia sul punto di disfarsi, quanto piuttosto per quanti questa convinzione continuano a coltivarla nonostante le evidenze.

 

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Ancora maggio 2013, i dati del CNR Isac

Non so se si sia già visto sulle agenzie o su altri media, dalla mailing list dell’Ufficio Stampa del CNR vi ripropongo il testo ddel consuntivo del mese di maggio dell’Isac CNR.

 

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[C]on l’arrivo del mese di giugno si è conclusa la primavera, dal punto di vista meteorologico. Secondo i dati dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Isac-Cnr) di Bologna, la primavera 2013 è risultata, per l’Italia settentrionale, tra le più piovose dell’ultimo secolo, con temperature che, nel mese di maggio, hanno diviso il Paese facendo registrare mezzo grado sopra la media al sud e nove decimi di grado sotto media al nord.

 

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Modelli climatici: meno ghiaccio, meno maltempo

Questi primi giorni del mese di giugno non sono forse i più adatti per parlare di una diminuzione della frequenza di occorrenza delle perturbazioni alle medie latitudini, con lo sconcerto – in larga misura privo di fondamento – che pervade il comune sentire circa le vicende meteorologiche stagionali. Basterebbe però spostare l’attenzione un po’ più a est, verso un Europa orientale alle prese con un caldo decisamente anomalo, per scoprire che l’equazione meno ghiaccio = meno maltempo potrebbe essere fondata.

 

Questo non vuol dire che lo sia però. Piuttosto vuol dire, per l’ennesima volta, che il tempo atmosferico osservato a scale spaziali e temporali limitate non è mai in diretta relazione con il clima. E questo vale per le piogge e il fresco che stiamo sperimentando, come varrà, presumibilmente nella prossima estate, per il caldo che inevitabilmente si farà sentire.

 

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Se Kyoto non è Montreal il riscaldamento globale è finito

I trattati firmati a Montreal nel 1987 e a Kyoto esattamente dieci anni dopo, sono stati i primi, se non unici esempi di global governance che la diplomazia internazionale ha saputo esprimere. Se simili, in quanto di natura ambientale il primo ed essenzialmente focalizzato sul clima il secondo, tra i due trattati c’è di fatto una enorme differenza.

 

Il primo, riguardante la messa al bando dei Clorofluorocarburi (CFC), ritenuti responsabili del depauperamento dello strato di ozono stratosferico, ha funzionato, nel senso che l’uso dei CFC è stato di fatto abolito e, seppur con lentezza e con qualche controversia scientifica, ci sono prove abbastanza evidenti che i loro effetti dannosi si siano attenuati. Il secondo, siglato con l’obbiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica provocate in larga misura dall’uso dei combustibili fossili e ritenute responsabili dell’accrescimento dell’effetto serra e conseguente riscaldamento globale, è fallito in tutte le sue parti. Le emissioni sono aumentate e i fondamenti scientifici su cui poggiava stanno venendo meno, perché nonostante questo aumento la temperatura media superficiale del Pianeta ha smesso di aumentare o, quanto meno, ha assunto un trend molto diverso da quello atteso.

 

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