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Evidenze empiriche della capacità dei cicli planetari di modulare l’Irradianza Solare Totale (TSI)

Su queste pagine abbiamo avuto modo di commentare diverse volte i lavori del prof. N. Scafetta per cui tutti noi, ormai, conosciamo i suoi modelli e la capacità di tali modelli di replicare il comportamento del sistema climatico. L’attuale iato nell’aumento delle temperature superficiali, per esempio, è stato modellato dal prof. Scafetta già da qualche anno e in questo ha avuto più successo dei modelli accoppiati oceano-atmosfera i cui risultati sono alla base dell’AR5 dell’IPCC.
Limitarsi, però, alla sola temperatura superficiale significa sminuire i meriti del prof. Scafetta in quanto le sue metodiche di analisi non lineari riescono ad aver ragione anche di altre bizzarrie legate al clima e, più in generale, al sistema fisico terrestre: livello dei mari, AMO, PDO e non ultimi, i modelli climatici stessi.
In uno dei suoi ultimi lavori, pubblicato sulla rivista Astrophysic Space Science lo scorso mese di luglio, il prof. N. Scafetta ha cercato di modellare i cicli ad alta frequenza che caratterizzano l’irradianza solare (TSI):

 

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I modelli climatici e la loro bassa capacità predittiva: ipotesi di miglioramento.

I modelli climatici e la loro bassa capacità predittiva: ipotesi di miglioramento.

Tore Cocco ha recentemente pubblicato, qui su CM un interessante post sullo stato dell’arte della ricerca in ambito climatico. Tra le molte considerazioni che ha svolto nell’articolo, una mi ha particolarmente colpito:

 

“La climatologia è una scienza enormemente più vasta e complessa delle scienze necessarie a progettare un aereo, e a differenza di quest’ultimo siamo ancora molto lontani dal realizzare un modello di clima “funzionante” realisticamente.”

 

Io condivido questa impostazione del discorso che, noto con piacere, sta cominciando a farsi strada anche nell’ambiente della climatologia.
Incuriosito da una presentazione a firma del prof. A. Pasini apparsa su “Le Scienze” di agosto che, sotto diversi punti di vista, si collega alla citazione di T. Cocco con cui ho aperto questo post, ho rintracciato un brevissimo articolo a firma di B. Stevens e S. Bony pubblicato su Science in cui si analizzano i risultati dei modelli climatici attualmente utilizzati dai climatologi:

 

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Influenza della fusione dei ghiacci groenlandesi sulla variazione del livello del mare: non è solo questione di GW

In un mio precedente post ho avuto modo di commentare l’influenza del tasso di fusione delle calotte glaciali antartiche e groenlandesi sulla velocità di variazione del livello del mare. La conclusione del post metteva in risalto la grande incertezza che caratterizzava le stime del contributo delle calotte glaciali antartiche e, soprattutto, groenlandesi nella determinazione della variazione del trend dell’accelerazione del livello del mare.

Ad aumentare l’incertezza, qualora ve ne fosse bisogno, ha contribuito un interessante articolo da poco pubblicato su Nature Geoscience  (qui l’abstract):

 

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Influenza della fusione della calotta glaciale antartica e di quella groenlandese sull’accelerazione dell’aumento del livello dei mari

La variazione della velocità di aumento del livello medio dei mari è stata oggetto di discussione su CM in diverse occasioni. Nell’ultimo post dedicato a questo argomento ho avuto modo di commentare le analisi effettuate dal prof. Nicola Scafetta sui vari record di dati mareografici utilizzati nella letteratura scientifica. Uno degli aspetti di maggior rilievo posto in evidenza dal prof. N. Scafetta, riguardava l’influenza della lunghezza del record preso in considerazione sulla stima della variazione della velocità di aumento del livello del mare. In estrema sintesi il livello del mare varia in modo ciclico con periodicità multidecadale per cui a periodi di aumento seguono momenti di diminuzione del trend di variazione del livello del mare. Se il record utilizzato è corto non possiamo sapere se ci troviamo in una fase in cui il trend è in aumento o in diminuzione per cui corriamo il rischio di attribuire a cause non naturali effetti che sono del tutto naturali: se ci troviamo nel tratto ascendente della curva che rappresenta la variazione multidecadale del livello del mare, siamo portati a credere che la velocità con cui varia il livello del mare è aumentata, viceversa se ci troviamo nella parte discendente della medesima curva.

 

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Criticità nelle curve di normalizzazione regionali utilizzate in Briffa et al. 2013

Circa un mese fa, qui su CM, è stato pubblicato un articolo in cui ho commentato un notevole lavoro del dr. K. Briffa et al. relativo alla revisione della cronologia delle serie di dati dendrocronologici desunti dallo studio di campioni (in vivo e sub fossili, cioè alberi morti di cui si conserva, generalmente, la parte più vicina al terreno) di larici siberiani raccolti nelle aree della penisola di Yamal e degli Urali polari russi.

 

Briffa et al., 2013 per estrarre dalle serie di dati raccolti il segnale climatico, ha fatto ricorso a delle curve di normalizzazione regionali (RCS). In occasione del mio precedente commento ebbi modo di sottolineare che queste curve rappresentavano un elemento di una certa debolezza nella trattazione di Briffa et al. 2013. Nelle settimane successive alla pubblicazione del post questi miei dubbi hanno trovato un’autorevole conferma in una serie di post del dr. Jim Bouldin che, in originale, possono essere liberamente consultati qui.

 

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I modelli di regressione: non è tutto oro quello che luce

Il prof. N. Scafetta, in questi ultimi tempi, si sta interessando al problema del livello del mare e della sua evoluzione futura. Dopo il recente articolo…

 

Multi-scale dynamical analysis (MSDA) of sea level records versus PDO, AMO, and NAO indexes – (pdf)

 

…di cui ho avuto occasione di parlare qui, è stato da poco pubblicato un nuovo lavoro che, però, si occupa di un problema ancora più generale: gli errori nell’applicazione dei modelli di regressione e dei filtri wavelet utilizzati per analizzare i segnali geofisici.

 

Discussion on common errors in analyzing sea level accelerations, solar trends and global warming

  – (pdf)

 

Nell’articolo, piuttosto corposo e denso di spunti di riflessione molto interessanti, il prof. N. Scafetta accentra la sua attenzione su tre aspetti che rivestono molta importanza nel dibattito in corso tra i membri della comunità scientifica che si occupano di climatologia, in generale, e dei suoi aspetti più particolari (temperature, livello dei mari, contenuto di calore degli oceani, paleoclima ecc., ecc.) Secondo quanto scrive il prof. N. Scafetta nel suo articolo (da ora Scafetta, 2013b) buona parte degli studi che sono stati effettuati fino ad oggi sono affetti da errori ed approssimazioni eccessivi in quanto non tengono conto di tre importanti fonti di errore.

 

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Il livello del mare cresce molto più del previsto, ma anche molto meno del previsto: per cause prevalentemente naturali, però!

Nel recente passato ho avuto modo di esporre (qui e qui CM), alcune considerazioni relative ad articoli che si occupano del livello del mare e, in particolare, delle variazioni della velocità di aumento del livello del mare. Dal confronto delle varie pubblicazioni si può facilmente capire che la questione della velocità di variazione del livello del mare è piuttosto controversa: se da un lato molti autori sono propensi a scommettere su un forte aumento della velocità di variazione del livello del mare nei prossimi decenni, altri sono piuttosto scettici e propendono per un aumento del livello del mare piuttosto modesto. Le due linee di pensiero si rifanno, in linea di massima, a due modi differenti di stimare le variazioni del livello del mare: da una parte troviamo i fautori della modellazione semi-empirica, dall’altra i fautori dei modelli globali che stimano l’evoluzione dei fattori fisici che contribuiscono alla variazione del livello del mare nel futuro.

 

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Il livello del mare crescerà molto più del previsto (peggio di quanto pensassimo)!

Qualche settimana fa, qui su CM, sono stati pubblicati due post (qui e qui) in cui si commentavano le conclusioni di due articoli che analizzavano l’andamento del livello del mare (regionale nel primo caso e globale nel secondo). Di recente sono stati pubblicati altri due articoli:

 

 

Entrambi gli articoli analizzano il trend di aumento del livello medio del mare negli anni futuri.

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Il livello del mare non cresce così rapidamente come previsto (quello medio globale, però)!

di Donato Barone

Solo pochi giorni  or sono ho scritto un post (pubblicato qui su CM il 24/12/2012) in cui si parlava di hot spot in cui il livello del mare cresce in modo più veloce di quanto previsto dai modelli matematici. Nel post si chiariva, però, che in altre zone dell’oceano il livello del mare cresce meno rapidamente del previsto. In modo piuttosto sbrigativo, pertanto, si potrebbe dedurre che mediamente la velocità con cui aumenta il livello del mare non ha subito né aumenti né diminuzioni. Questa conclusione, poco rigorosa e poco logica, però, sarebbe sensata: è la stessa a cui, applicando metodi di indagine molto più rigorosi, sono giunti J. M. Gregory et al. nel loro articolo pubblicato da AMS Journals Online:

Twentieth-century global-mean sea-level rise: is the whole greater than the sum of the parts?

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Il livello del mare cresce più rapidamente di quanto previsto (solo in qualche punto, però)!

di Donato Barone

Su Nature Climate Change è stato pubblicato, qualche mese fa, un interessante articolo a firma di A. H. Sallenger et al.

Hotspot of accelerated sea-level rise on the Atlantic coast of North America

L’articolo illustra uno studio basato sui dati di diversi mareografi ubicati sulla costa atlantica degli Stati Uniti a nord di Cape Hatteras e si propone di dimostrare che la velocità di variazione del livello medio del mare è diversa da zona a zona.

Gli autori, allo scopo di eliminare il rumore tipico delle serie di dati in loro possesso, non hanno applicato gli usuali algoritmi di filtraggio dei segnali a bassa frequenza, ma hanno utilizzato degli algoritmi di analisi statistica che sono in grado di correggere le anomalie ad essi associate. Ai dati così trattati hanno applicato dei modelli di analisi di regressione e, quindi, hanno calcolato il diagramma delle variazioni del livello del mare (misurato rispetto ad una superficie di riferimento) in funzione del tempo espresso in anni. In tal modo essi hanno calcolato la velocità di variazione del livello del mare relativa ai vari mareografi presi in esame. I metodi piuttosto innovativi utilizzati per il trattamento dei dati grezzi sono stati testati con altre metodologie ottenendo valori che si discostano da quelli ottenuti entro una fascia di ampiezza pari a +/- 10%.

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La forzante solare è in grado di influenzare il clima terrestre?

Una delle discussioni più appassionanti nell’ambito del dibattito sul clima, riguarda l’influenza del Sole sul sistema climatico terrestre. In particolare si dibatte circa l’influenza sul clima terrestre dell’intensità dei massimi solari e della profondità dei minimi solari. Secondo alcuni la PEG o LIA, cioè il periodo freddo che ha caratterizzato gli anni compresi grossomodo tra il 17° secolo e gli inizi del 19° secolo, fu originata da una lunga serie di minimi solari meglio conosciuti come Minimo di Maunder.

Molti climatologi danno poco credito a questa attribuzione e, probabilmente a ragione, chiamano in gioco molte altre cause. Alcuni hanno cercato addirittura di negare l’esistenza della PEG o di ridimensionarla a fenomeno locale e, quindi, di scarso interesse globale. A mio modesto parere “in medio stat virtus” che, tradotto, significa che la PEG ha avuto molte concause tra cui anche il Sole. Dello stesso avviso, per esempio, sono gli autori di un articolo pubblicato sulla rivista THE HOLOCENE lo scorso mese di ottobre:

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Secchi, SST e…Campanelli – Parte II

Gli stessi campanelli della prima parte di questo post, si sono rivelati preziosi nell’affrontare un altro problema che è strettamente collegato a quello delle SST nel periodo 1940/1945. Si tratta di un lavoro a firma di Ernst-Georg Beck pubblicato su ENERGY & ENVIRONMENT VOLUME 19 No. 7, 2008.

50 Years of continuous measurement of CO2 on Mauna Loa

Per capire bene il lavoro di Beck, inoltre, si può consultare anche quest’altro lavoro.

In questi lavori Beck, spulciando i risultati di diverse migliaia di analisi chimiche su campioni d’aria, contesta i risultati cui è giunto Keeling a proposito dell’evoluzione della concentrazione di CO2 nell’atmosfera sulla base del record di Mauna Loa. Secondo Beck la concentrazione di CO2, nel passato, anche recente, ha conosciuto picchi molto più alti di quelli universalmente accettati. Uno di questi picchi (più di 400 ppmv) registrato intorno agli anni ’40, in concomitanza dell’anomalo andamento delle SST di cui abbiamo parlato in precedenza, a suo giudizio, sarebbe stato una conseguenza dell’aumento delle temperature globali. Ciò avrebbe avvalorato l’ipotesi che la concentrazione di CO2 aumenta in seguito all’aumento della temperatura e non viceversa.

Anche in questo caso i famosi campanellini hanno tintinnato piuttosto violentemente spingendomi a cercare di vederci più chiaro. Dopo aver letto i lavori di Beck mi sono reso conto che molte erano le debolezze delle tesi che li caratterizzavano per cui non mi sento di condividerne le conclusioni. Gran parte dell’articolo del 2008 è dedicata a dimostrare che Keeling e Callendar hanno deliberatamente trascurato i risultati delle analisi chimiche eseguite nel corso del 19° secolo e nella prima parte del 20°. Essi, a tali risultati, prima del 1958, hanno preferito i dati proxy derivanti dalle carote di ghiaccio. Beck reputa questi dati meno precisi di quelli di origine chimica.

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Secchi, SST e … campanelli

Negli anni ormai lontani dei miei studi universitari imparai due lezioni molto importanti di cui ancora oggi sono grato ai miei vecchi professori. La prima riguarda le misurazioni e gli errori nelle misurazioni. Mi fu insegnato che la misurazione non è mai precisa, ma sempre affetta da errori (sistematici e/o accidentali). A meno che, come amava dire il compianto prof. E. Vitelli, l’Arcangelo Gabriele, mosso a compassione, non venisse a suggerirci il valore esatto della misura.

L’altra lezione riguardava lo scopo stesso dell’istruzione universitaria ad indirizzo scientifico. Il prof. M. Pagano, in proposito, amava dire che il suo compito era quello di creare, nella nostra mente, una rete a maglie quadre costituita da fili all’incrocio dei quali vi era un campanellino il cui scopo era quello di tintinnare quando qualcosa non quadrava. Uno di questi campanelli tintinnò nell’aprile del 2009 durante la lettura di un articolo pubblicato sul n° 488 di “Le Scienze”:

[info]

La discontinuità del 1945
La curva delle temperature globali degli ultimi 150 anni presentava un picco inspiegabile intorno al 1940. Analizzando i dati si è scoperto che era dovuto a una discontinuità nei rilevamenti delle temperature marine.

Di Antonio Zecca e Luca Chiari

[/info]

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Non per un cucchiaio d’olio si deve guastare l’insalata!

Molte volte capita che un buon lavoro venga rovinato da un’inezia. Un mio vecchio cliente che ora si trova nel mondo dei giusti, amava dire che “non per un cucchiaio d’olio si deve guastare l’insalata”. In modo molto più prosaico possiamo dire che quando ci si trova a ballare, si deve ballare, costi quel che costi. Nei giorni scorsi ho avuto modo di riflettere su di uno studio pubblicato su Nature Climate Change:

Vulnerability of US and European electricity supply to climate change

M. T. H. van Vliet, J. R. Yearsley, F. Ludwig, S. Vögele, D. P. Lettenmaier e Pavel Kabat

L’articolo illustra i risultati di una ricerca effettuata dagli autori e che riguarda la vulnerabilità del sistema elettrico europeo e statunitense al cambiamento climatico. La cosa mi è parsa interessante in quanto, in presenza di un ipotetico cambiamento climatico, è necessario sviluppare delle politiche di mitigazione che consentano di ridurre le conseguenze del cambiamento stesso. L’abstract dell’articolo induceva ad una interpretazione di questo tipo. Essendo l’articolo liberamente accessibile ho iniziato a leggerlo.

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