Questo post è uscito in originale su La nuova Bussola Quotidiana.
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«Una paura particolare sia per il disastro attuale che per il futuro (venne) da un’improvvisa inondazione del Tevere, che con uno smisurato ingrossamento, abbattuto il ponte Sublicio e riversatosi per la rovina della diga contrapposta, allagò non solo le parti basse e piane della città, ma anche quelle sicure contro sciagure di tal genere; molti furono trascinati fuori dalla pubblica via, parecchi furono sorpresi nelle osterie e nelle camere da letto. Fra il popolo dilagò la fame, la povertà e la carestia. Le fondamenta dei caseggiati furono danneggiate dalle acque stagnanti».
Sembra un commento della situazione romana attuale, invece si tratta di un resoconto del 69 d.C. dell’autore Tacito. I romani non mancavano di intervenire sulla prevenzione, non solo con interventi di pianificazione territoriale su larga scala, ma anche stimolando nei privati una vera e propria «presa di coscienza collettiva» così da mettere ogni cittadino in condizione di cooperare per quanto possibile all’interesse generale. I romani sapevano che, per contrastare le inondazioni, occorre in primo luogo rimuovere i materiali solidi e la vegetazione dal letto del fiume per il ripristino del suo regolare deflusso. Per questo, come ci racconta Aulo Gellio, un erudito del II secolo d.C., un pretore di età repubblicana diede ai privati la possibilità di agire in giudizio nell’interesse generale contro quell’appaltatore che, nonostante l’impegno assunto verso la collettività, non avesse eseguito il lavoro a regola d’arte (testo integrale qui).